Sul pavone, Robert de Montesquiou e René Lalique

Scrive Jullian nella sua celebre biografia (trad. it. Palermo, Novecento, 1993) che il maestro di bellezza Robert de Montesquiou-Fézensac (1855-1921), di cui ricorrerà, tra qualche mese, il centesimo anniversario della morte, è poeta prezioso. I critici ritrovano “in colui che intanto coglie i suoi allori con la Guirlande de Jolie, l’esuberante pedanteria, i gongorismi fioriti degli scrittori dell’età di Luigi XIII esumati dal libro di Théophile Gautier, Les Grotesques” (p. 132). Lì, Robert “scopre i suoi antenati” ed è simile più a un Gautier che a un Baudelaire.

La copertina della raccolta Les Paons (Paris, Charpentier et Fasquelle, 1901) si deve a René Lalique, che produce una litografia a colori ispirata al pavone, inequivocabilmente evocativa della gioielleria, ma anche della poesia. Il pavone è il dandy stesso, le cui piume rinascono a ogni primavera e che becca compulsivamente il cuore dell’art nouveau, al suo apice proustiano.
Nessuna novità, sia detto. Montesquiou si era già precedentemente rivolto a un altro importante artista, Albert Besnard, per impreziosire Les Perles rouges (Paris, Fasquelle, 1899).

Per Lalique, l’illustrazione è, ogni volta, un riscoprire l’essenza della propria attività e, congiuntamente, anche un ritorno alle origini. Nato a Ay-sur-Marne il 6 aprile 1860 e morto a Parigi il primo maggio del 1945, René Jules Lalique studia infatti disegno fin da giovane, a partire dal 1872, con Justine Marie Lequien. Studia anche arti decorative e inizia a disegnare gioielli al ritorno da un soggiorno in Inghilterra. Dal 1883, collabora con una rivista professionale, Le Bijoux, con due disegni al mese, e, da quel momento, il suo genio è spesso al servizio del libro e dell’illustrazione.


Lalique opera in anni cruciali e la ricerca di una sorta di unitarietà delle arti, d’interazione fra competenze, riguarda anche il mondo della stampa, come in qualche modo spiega la parabola della xilografia, che, nell’Ottocento, subisce l’avvento della tipografia industriale, ma risorge proprio grazie a un utilizzo artistico, artigianale e nuovo, perché eterno.
Il “rinascimento” dell’incisione su legno – così lo definì Octave Uzanne, nel 1892 – esigeva un ritorno all’antico, all’armonia totale che solo l’artigianato poteva garantire (e basti la storia della Kelmscott Press a documentarlo). Lalique realizza illustrazioni per La Légende dorée, ad esempio, firma la copertina del programma della rappresentazione di Théodora, al Théâtre Sarah Bernhardt, nel 1902, illustra la copertina del Quintette de Fleurs. Pièce IV-Ton baiser est biren léger, di Léon Delafosse (1897), melodia su poema dello stesso Montesquiou.

Torniamo però alle poesie. Il pavone, animale sacro, simbolo di contraddizioni, sospeso tra rigenerazione e superbia, ben si presta a una declinazione in chiave simbolista ed è soggetto apprezzato da Lalique. Non si può ad esempio dimenticare l’interpretazione che ne dà – tenue, ma decisa – nella spilla oro, vetro e pietre (1906-1907) della collezione israeliana Shai Bandmann. Per quanto concerne la copertina in esame, al Musée Lalique di Parigi sono conservati studi per pendenti con soggetto il pavone e, soprattutto, un sorprendente disegno acquarellato per un pettine, risalente agli anni 1897-1898, cui si può collegare la nostra illustrazione, anche se non siamo in grado di stabilire con certezza una discendenza diretta o comunque individuarli come antecedenti.

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